Sono al quinto piano del Payne-Whitney, un po’ cammino, un po’ corro, un po’ mi azzardo a 4,5 di velocità sul tapis roulant. Ho gli auricolari, ma devo cambiare canzone ogni 30 secondi. Abbasso lo sguardo e mi accorgo che sono passati solo tre minuti. Mi annoio, mi innervosisco e vorrei andarmene.
Sono anche, purtroppo, due volte olimpionica nella ginnastica ritmica.
Ecco come l’ex ginnasta statunitense Laura Zeng comincia a raccontare il suo rapporto complicato con l’attività fisica – e con se stessa – dopo aver lasciato il mondo dell’élite sportiva.
Oggi voglio condividere con voi le riflessioni che Laura ha scritto per il Yale Daily News: pensieri su emozioni, identità e aspettative che si fanno strada quando si chiude un capitolo di vita dedicato allo sport. Qui trovate la versione completa dell’articolo in inglese.
La disciplina come dovere
Come è possibile passare dall’allenarsi sempre a malapena riuscire a farlo per un giorno? È questa la domanda che Laura si è posta dopo il ritiro.
Da atleta d’élite, si allenava sei-otto ore al giorno, sei giorni a settimana. La disciplina non era una scelta, ma un obbligo: perdere ritmo, abilità, abitudini o controllo del corpo era impensabile.
Durante il liceo, saltare giorni o settimane di scuola per allenarsi o gareggiare all’estero era una pratica comune e accettata. Sapeva di poter sempre recuperare con l’aiuto di insegnanti e compagni. L’allenamento, invece, era intoccabile.
È normale allenarsi tanto quanto si dorme? Spingere il tuo corpo al limite, modellandolo e scolpendolo continuamente, per paura di cosa accadrebbe se semplicemente lo lasciassi “essere”?
Nel mondo della ginnastica ritmica e dello sport d’élite, spiega Laura, questa era considerata la normalità. La retorica dominante affermava che, per essere il migliore, non ci si poteva affidare alle proprie sensazioni per definire i propri standard.
Anche dopo gare importanti, le pause non superavano mai una settimana. Durante le vacanze, il massimo consentito erano due o tre giorni. Persino dopo lunghi viaggi, si tornava subito in palestra: ogni minuto lontano era considerato tempo sprecato.


Il corpo come identità
Crescere in un contesto dove il corpo è lo strumento principale di lavoro porta facilmente a confondere il valore personale con la forma fisica. L’aspetto e la performance diventano il metro con cui si definisce la propria identità.
Laura ricorda che, da atleta, essere considerati “fuori forma” durante una competizione importante era un attacco personale. Nella sua esperienza, un atleta “fuori forma” veniva automaticamente etichettato come impreparato. Non si trattava di avere una brutta giornata – cosa che può capitare a chiunque – ma di essere responsabile delle proprie mancanze. Un atleta non può controllare tutto, ma lo sforzo è sempre sotto il suo dominio. Trascurare la preparazione era visto come una mancanza di rispetto verso se stessi e il proprio potenziale.
In quel contesto, lo sforzo fisico e il valore morale si intrecciavano in modo quasi inestricabile. L’aspetto e le prestazioni del corpo diventavano l’unico metro di giudizio per definire se stessi. Per Laura, come per molti atleti professionisti, il corpo non era solo uno strumento, ma anche una misura del proprio valore personale.
L’aspetto del tuo corpo e le sue prestazioni diventano gli unici fattori determinanti di chi sei e di quanto sei “bravo” come persona. Crescendo nel mondo dello sport, è diventato fin troppo facile per me confondere il carattere morale con la forma fisica.
Laura confida che, dopo il ritiro, allenarsi era diventato un doloroso promemoria di ciò che aveva perso. Ogni tentativo evocava sentimenti di colpa, frustrazione e delusione. Sebbene cercasse di mantenere un minimo di disciplina, spesso prevaleva il desiderio di abbandonare del tutto l’allenamento, accompagnato dalla sensazione opprimente di essere ormai oltre il punto di non ritorno.
Quello che un tempo era fonte di soddisfazione e crescita si era trasformato in un mezzo per dimostrare a se stessa e al mondo di avere ancora valore.


L’adattamento al mondo reale
Dopo la fine della carriera agonistica, Laura si è ritrovata a lottare per mantenere una routine minima. Si chiedeva come fosse possibile passare da un allenamento totalizzante al faticare per muoversi ogni tanto.
Razionalmente, sapevo che il mio programma di allenamento da atleta era estremo, che non era realistico mantenerlo e che era normale e sano lasciarmi andare. Ma fisicamente ed emotivamente, non riuscivo ad accettarlo.
Laura sapeva che prendere una pausa completa dall’esercizio era sano, che era giusto lasciare che il suo corpo cambiasse. Ma, emotivamente, queste consapevolezze non l’aiutavano. Si sentiva confusa: dopo 16 anni di attenzione costante al proprio corpo, ogni cambiamento sembrava sbagliato.
La voce interiore che l’aveva spinta a diventare una grande atleta non riusciva ad adattarsi al mondo reale, criticandola per le nuove priorità e risentendosi per le sue presunte mancanze: provare cose nuove, costruire relazioni e trovare un lavoro richiedevano parte del tempo che prima riservava esclusivamente alla palestra.
Senza la pressione delle Olimpiadi o il supporto di una struttura professionale, Laura vedeva l’esercizio solo come un mezzo per perdere peso e dimostrare di valere ancora. Ma queste motivazioni non le davano soddisfazione, né erano autentiche.


La ricerca di un nuovo equilibrio
Molti ex ginnasti e atleti che Laura ha incontrato le hanno detto che ci vogliono circa due anni per superare questa fase. Due anni di distacco completo dalla palestra, di esercizio sporadico e di lotte con se stessi. Solo allora si inizia a capire che la normalità non risiede nell’ossessione per la performance, ma nel trovare ciò che fa stare davvero bene.
Con il tempo, anche Laura ha iniziato a costruire un equilibrio diverso. Ha accettato che mantenere gli standard della carriera agonistica non fosse possibile. Ha imparato a essere paziente, ad accettare il suo corpo così com’è e ad abbassare le aspettative.
Dopo due anni, ha finalmente riscoperto un rapporto più sano con il movimento. L’allenamento è tornato a essere un modo per sentirsi forte e in salute, non un obbligo. Questo cambiamento ha rappresentato una trasformazione più profonda: un percorso di accettazione e di scoperta di sé al di fuori dello sport.
Payne Whitney non è ancora casa, ma va bene così. Non c’è fretta e nemmeno bisogno: è solo una palestra, e finalmente è così che la vedo. (…) Ora ciò che conta non è più quante ore passo in palestra, ma come mi sento dentro.
Laura Zeng detiene ad oggi i migliori risultati della ginnastica ritmica statunitense. Ha vinto il bronzo ai Giochi Olimpici della Gioventù nel 2014, ha partecipato a due Olimpiadi ottenendo il miglior piazzamento di sempre per una ginnasta USA e nel suo palmares ha anche quattro campionati del mondo e 6 titoli americani All Around. Oggi Laura è iscritta all’università di Yale e contribuisce alla rubrica “Ask an Olympian” del Yale Daily News. Su BlaBlaGym abbiamo tradotto anche il suo articolo su cosa significa ritirarsi dallo sport.
Qualche ex ginnasta che ci legge si è ritrovata in questo racconto? Vi aspetto nei commenti!
Off topic: Alexandra è tornata in palestra! Chissà…
Ciao! Dove l’hai letto o sentito? Io non capisco bene dai suoi social, e non trovo altre informazioni in giro…
Mi l’ha proposto Facebook: un video su Instagram di Alex con una trombetta che squilla, sulla pedana. Prova a vedere il suo profilo Instagram
Juste une suggestion : au lieu de rechercher et de réinterpréter des articles sur Internet, pourquoi ne pas demander aux Raskinas une petite interview ? (après tout, Yulia avait déjà remercié personnellement les Raskaska sur le blog par une vidéo de bienvenue – il ne devrait donc pas y avoir d’appréhension !) Les deux poursuivent en effet de manière conséquente et avec succès le plan durable de préparer leurs athlètes de haut niveau à la vie après la période active. Comme ils l’ont appris de leur propre carrière, afin d’éviter des crises de sens telles que celles décrites ci-dessus. Indépendamment du fait de savoir si le but de la vie lié au sport doit être poursuivi ou non après la carrière de gymnaste.
Wow mi ritrovo molto in queste parole!!!