Gli atleti sono spesso celebrati per i loro successi e le loro imprese eccezionali, ma cosa succede quando si ritirano? Ecco le riflessioni della ginnasta olimpionica Laura Zeng, come riportate in un articolo scritto per il "Yale Daily News".

Chi è Laura Zeng?

Laura Zeng è stata la ginnasta statunitense di maggior successo fino ad ora. Ha iniziato a farsi notare da juniores, quando ha vinto la medaglia di bronzo ai Giochi Olimpici della Gioventù a Nanchino nel 2014, e nella sua brillante carriera ha partecipato a due Olimpiadi – 2016 e 2020 – e quattro campionati del mondo.

Oggi Laura è iscritta alla prestigiosa università di Yale ed è una reporter del “Yale Daily News“, dove si occupa di arte e cultura oltre a curare la sua rubrica bimestrale “Chiedi a un olimpionico“. Proprio da questa rubrica è stato tratto il seguente articolo, che mi sono permessa di tradurre in italiano; se invece ve la cavate con l’inglese, trovate qui la versione originale.

Courtesy of Alice Mao

ZENG: What does it mean to retire?

Di: Laura Zeng – Pubblicato originariamente sul Yale Daily News il 23 gennaio 2023 – Fonte

Quando le persone pensano al ritiro, pensano a qualcuno di età superiore ai 65 anni. Qualcuno che ha lavorato tutta la vita, con i figli ormai fuori casa. Qualcuno che ha attraversato la fatica e ne è uscito, non uno studente universitario che si aggira per il campus.

Quindi, quando mi definisco “ritirata” da poco, la maggior parte delle persone pensa che stia scherzando. (ndr: in inglese la parola “retired”, “ritirata”, che viene utilizzata in merito al ritiro sportivo, significa anche “andare in pensione”)

Ma è passato un anno – quasi esattamente – da quando ho presentato la mia notifica a USA Gymnastics, al U.S. Olympic Committee e alla U.S. Anti-Doping Agency, annunciando il mio ritiro dallo sport della ginnastica ritmica. Un anno da quando me ne sono andata definitivamente – il che è più di quanto si possa dire per Tom Brady – e che ho detto addio alla pedana, nel bene e nel male.

All’inizio il cambiamento sembrava puramente esterno: ho inviato alcune e-mail, ringraziato le persone giuste, fatto un annuncio ufficiale. Le mozioni erano burocratiche, ma rapide. Sono stata liberata, tutto in una volta, dalle aspettative degli altri.

Ma per quanto riguarda le aspettative che avevo per me stessa?

Ho sempre saputo che la mia vita come ginnasta sarebbe stata breve. Come un nuotatore che ha il suo picco a 26 anni, o un giocatore di golf che arriva al suo apice a 35 anni, sono diventato una “senior” quando ho compiuto 15 anni. Negli anni seguenti, mi è stato costantemente ricordato che semplicemente continuando, stavo raggiungendo un risultato – la mia longevità era un’impresa già di per sé. E mentre non c’è niente di sbagliato in quel sentimento, ciò non ha reso meno difficile rendersi conto che crescere significa invecchiare.

L’anno scorso ho partecipato a un summit per gli atleti ritirati nelle montagne del Colorado. Ho incontrato altri 13 atleti di diversi sport, come salto con gli sci, rugby e lancio del peso. Ero l’unica ginnasta di ritmica presente e – per la prima volta da molto tempo – la persona più giovane nella stanza. Come un gruppo eterogeneo uscito dal Breakfast Club, non avevamo niente in comune, a parte una condivisa crisi di identità.

Nel corso di un fine settimana, abbiamo condiviso le nostre paure più profonde e i nostri peggiori pensieri, un gruppo di estranei che vivono la stessa lotta. Era come immaginavo fosse un incontro degli alcolisti anonimi, tranne per il fatto che non eravamo alcolizzati – eravamo atleti che non sapevano cos’altro fossimo.

La maggior parte delle persone non si rende conto che il ritiro comporta il lutto. La fine di una carriera è la sua morte, non importa quanto gloriosa sia stata.

I media celebrano il trionfo, ma la maggior parte degli atleti si ritira perché costretta, fisicamente o mentalmente. Anche quelli che si ritirano all’apice con una brillante medaglia d’oro hanno rimpianti e insicurezze su ciò che verrà dopo.

Guidati da uno psicologo dello sport, abbiamo trascorso otto ore al giorno a fare autovalutazioni e test della personalità, separando ciò che pensavamo di dover valorizzare da ciò che volevamo valorizzare. E ciò che ha reso il fine settimana così appagante – per richiamare un cliché – è stato sapere che non eravamo soli. Stavamo attraversando viaggi unici, ma in tandem.

L’ultima notte del summit, abbiamo iniziato a giocare a pallavolo e mi sono divertita a vedere quanto fossimo nella media. La maggior parte delle persone presume che l’abilità olimpica sia in qualche modo trasferibile, ma è vero il contrario (almeno per me). Nessuno di noi era un giocatore olimpico di pallavolo, ma, cosa più importante, a nessuno importava. Giocavamo solo per divertimento, per noi stessi – non per la patria, o per Dio, o per la gloria. E ho capito che a volte non c’è davvero niente da vincere vincendo e niente da perdere perdendo.

Come atleti, raramente mettiamo in dubbio cosa stiamo facendo, perché è sempre chiaro cosa deve essere fatto. Vogliamo vincere, e per questo serve disciplina, non libertà. Grinta, non prospettiva. Forza di volontà — non scelta. Il successo nello sport è diverso dal successo nella vita, perché riguarda quanto vuoi qualcosa, non quello che vuoi in primo luogo.

Ho passato così tanto dell’anno scorso a cercare di migliorarmi, senza sapere cosa significasse in un nuovo contesto. Desideravo ardentemente fare progressi, perché pensavo che avrei potuto sempre essere migliore, e che il meglio sarebbe sempre esistito.

Ma la vita mi sta insegnando che il meglio non sempre esiste. Che a volte è differente.

Il passaggio da atleta a persona è confuso.

A differenza dello sport, nella vita non ci sono regole fisse. Non esiste un regolamento o un chiaro paradigma del successo, quindi non è chiaro quali dovrebbero essere gli obiettivi, o quali sono gli obiettivi che contano.

A prima vista, ritirarsi significa fare pace con una carriera per andare avanti. Ma la parte più difficile è capire esattamente come andare avanti – e verso dove.

Nessuno può rispondere a queste domande per me, perché non ci sono risposte giuste o sbagliate – ma solo quelle che mi sembrano più giuste. Ci vorrà del tempo per trovare l’intuizione e le parti dentro di me di cui posso fidarmi. Ci vorrà del tempo per capire chi sono – e chi voglio essere.

Ma il tempo è esattamente ciò che il ritiro ti porta. Il tempo per elaborare il passato, e far posto a nuovi inizi.

Foto di Laura Zeng

Qualche riflessione

Ho scelto di tradurre questo articolo perché penso che del ritiro di un’atleta e delle sue difficoltà si parli troppo poco, o meglio: non se ne parli affatto.

Da parte mia posso dire che, pur non essendo un’olimpionica, il mio ritiro è stato un momento difficile: da un giorno all’altro mi sono ritrovata a dover affrontare una nuova realtà, senza obiettivi chiari e con dei nuovi ritmi. Mi sono ritirata dall’attività agonistica da “vecchia”, a 20 anni, mentre frequentavo già l’università, ma la ritmica aveva fatto parte di più di metà della mia vita fino a quel momento. È stato come lasciare una parte di me alle spalle e dover imparare a convivere con una nuova sensazione di “vuoto”. Oggi guardo indietro con nostalgia ai miei giorni da ginnasta, ma allo stesso tempo sono felice di essermi riuscita a dedicare anche ad altro.

Mi piacerebbe parlare anche di questo con tutte le ex ginnaste che ci leggono e che hanno voglia di condividere la loro esperienza!

Voi cosa ne pensate? Qualche ex ginnasta che ci legge si è ritrovata in questo racconto? Vi aspetto nei commenti!

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Ex-ginnasta, UX/UI designer, fondatrice del blog. Orgogliosamente redhead con un sacco di lentiggini.

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Lulu91
1 anno fa

Bellissimo articolo, brava la Zeng a soffermarsi con tanta lucidità su un punto critico del proprio percorso da atleta e persona. Grazie Bea per averlo portato alla nostra attenzione!

Peonia
1 anno fa

Concordo con Sara. Articolo interessante e spunto per profonde riflessioni in merito.
Grazie della condivisione

Sara
1 anno fa

Bellissimo articolo, grazie per averlo portato alla luce

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