Quest’anno per me è stato difficile, a causa di molti avvenimenti che hanno stravolto il ritmo della mia vita, alcuni più drammatici di altri, ma il più alterante è stato abbandonare la mia passione più grande e duratura: la ginnastica ritmica.
Il giorno in cui ho realizzato fino in fondo che non avrei ricominciato ad allenarmi è stato il 10 giugno, subito dopo aver concluso l’esibizione del canonico saggio di fine anno della mia società. Avrei dovuto essere felice, stavo passando un bel momento con le mie compagne e ci stavamo divertendo. Invece, non lo ero.
Ero demotivata. Ero spaventata. Ero dispiaciuta. Non ero felice.
Da mesi avevo (e ho ancora) un infortunio alla schiena, che non posso far guarire solo con arnica nel giro di una settimana. Nel saggio non avevo fatto praticamente nulla: cosa molto frustrante dato che sono sempre stata quella elastica del gruppo, che ha sempre fatto acrobazie ed elementi di schiena. Non faccio una rovesciata da mesi e so quanto questa frase possa sembrare sciocca ma, quando si pratica uno sport agonistico per otto anni, gli elementi assumono un significato speciale. Per me era così.
La ginnastica ritmica consiste nella ripetizione ossessiva dello stesso movimento, per ore e ore, allenamento dopo allenamento alla ricerca di una perfezione che non esiste. E così sono diventata anche io, il riflesso di questa disciplina: pignola, perfezionista e sempre insoddisfatta, ambiziosa e con la competizione che mi scorre nel sangue.
Questi tratti del mio carattere hanno sempre influenzato ogni ambito della mia vita, dallo sport alla scuola, dai passatempi alle relazioni sociali, per me tutto deve essere fatto con precisione ossessiva, tutto deve essere programmato, organizzato, devo sapere in anticipo ciò che succederà nel mio futuro immediato per avere il tempo di prepararmi ad un eventuale cambiamento. Non sono abituata ad accettare variazioni nella mia quotidianità. A causa della ginnastica ritmica ho vissuto le mie giornate nella monotonia per molto tempo e i cambiamenti mi spaventano.
Quel giorno e per il mese successivo ho avuto paura, perché mi ero resa conto che quella poteva essere l’ultima volta che mi esibivo su una pedana e questo è un cambiamento molto più grande di quasi tutti quelli che ho affrontato nel corso della mia vita. Questa realizzazione mi ha mandato in panico, il dolore mi offuscava la mente, mi sentivo fluttuare nel vuoto.
Mi sentivo sospesa nel nulla, con l’angoscia che incombeva su di me.
Durante i mesi successivi ho avuto il tempo di ragionare, di pensare e sono giunta alla conclusione che lasciare la ginnastica mi avrebbe fatto bene. Non fluttuavo più, avevo i piedi ben saldi al terreno: ero razionale. Ricordavo tutti i sacrifici che ho fatto e che ancora avrei dovuto fare per lo sport e più mi addentravo nei miei ragionamenti più mi convincevo della mia scelta, anche se presa con enorme dispiacere, dopo mesi di sofferenza.
Mi ero rassegnata. O per meglio dire mi ero autoconvinta di averlo fatto, di aver superato il dolore.
Avevo combattuto tanto per la mia passione ma ero stanca di continuare a farlo.
La rassegnazione è la mia tecnica per sfuggire a ciò che potrebbe farmi male: crea uno scudo che si interpone tra me e la causa del mio dolore proteggendomi, almeno momentaneamente, da ciò che temo. Adotto inconsciamente questa forma di difesa ogni volta che il mio cervello avverte una minima forma di sofferenza. Dopodiché, cerco di tenermi occupata o di pensare ad altro. Impiego le mie energie in attività che mi rendono serena: questa volta sarebbe stato più difficile farlo, considerando che la più frequente ed efficace di queste attività è sempre stata la ginnastica ritmica.
Successivamente, durante il mio percorso all’interno di qualunque dolore, nasce in me un nuovo sentimento: la sofferenza repressa arriva al limite, lo scudo si rompe e finalmente mi apro, rendendomi vulnerabile e dandomi finalmente la possibilità di soffrire fino in fondo, di disperarmi anche in maniera esagerata e di esternare tutte le emozioni che voglio, anche soltanto facendomi un bel pianto. E finalmente, durante quest’ultima fase, lascio che la ritmica mi manchi.
Credo che ci vorrà molto tempo prima che questo dolore venga superato e ricordato senza soffrire, ma ritengo che sia più giusto soffrire nel ricordo piuttosto che dimenticare tutto ciò che di bello c’è stato.
E adesso non so come concludere questo sfogo. Perché una delle attitudini che mi ha lasciato la ginnastica è quella di non chiudere finché non è perfetto.
Ma la perfezione si raggiunge? Esiste?
Ciao!
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Grazie Asia per la tua preziosa testimonianza! Devo dire che condivido molto di quello che hai scritto: dal senso di angoscia al momento del ritiro, fino alla ricerca della perfezione nella vita di tutti i giorni. Ad oggi ritengo che il ritiro dalla carriera sportiva sia stato uno dei momenti più importanti della mia vita, la fine di un capitolo… ma la buona notizia è che è stato anche l’inizio di un altro! In bocca al lupo per il tuo futuro ❤️
Asia, scrivevi nel tuo bellissimo racconto di non sapere come finire.
A me, nel leggere quanta intelligenza, profondità, passione e coraggio rivelano le tue parole, da papà e papà di una ginnasta, viene solo da dirti che il tuo viaggio, invece, è appena iniziato.
E se ti porterai dietro (senza sofferenza e nostalgia ma con gratitudine crescente) questo ricchissimo bagaglio di esperienza che ti ha donato lo sport, sono sicuro, sarai orgogliosa di te.
Noi già lo siamo.
Anche mia figlia vive di ritmica ogni giorno da un po’ di anni ed anche lei sta cercando di affrontare un infortunio ma non demorde.
È una ragazza solare, sempre di corsa,matura e molto responsabile. Affronta questo sport col cuore e con la spensieratezza e non pensa a cosa vorrebbe che accadesse, ma lo vive e si emoziona. Ha una struttura fisica solida e un’ottima preparazione atletica che le consentirà di approcciare ad altri sport se mai vorrà praticarne in futuro. Per quanto riguarda il ritiro quando accadrà sono certa che lo accetterà serenamente e guardandosi indietro lo farà con il sorriso. Un abbraccio forte ad Asia.
Non so se ci sia qualcosa di simile in altri sport, ma il fatto che la ritmica abbia quasi esclusivamente atlete bambine/ragazze (escluse le top mondiali) rimane un limite di questa fantastica disciplina.
Praticamente più si alza il livello e più si necessita di un numero sempre maggiore di ore in palestra ma questo cozza con l’età che avanza con i relativi cambiamenti fisici, le necessità dell’adolescenza e gli impegni scolastici (se non lavorativi).
Possibile che quasi ogni sport possa essere praticato ad ogni età, con le relative gare “seniores”, ma questo non sia possibile x la ritmica?
Capisco che sia difficile da pensare e che probabilmente oggi in pochi comprenderebbero una fase “seniores” nella ritmica, ma dovrebbe tutto partire con una svolta culturale, sicuramente difficile all’inizio, che con l’ausilio di appositi percorsi federali potrebbe prendere piede anche se lentamente; insomma un passo alla volta.
E sicuramente si aiuterebbe tutto quella marea di atlete che, dopo una vita in pedana si trovano do colpo fuori con tutti gli strascichi psicologici che comporta lo smettere l’attività agonistica nella ritmica.
D’accordissimo. Soprattutto perché la loro preparazione fisica non le rende abbastanza forti muscolarmente da potersi riciclare in altri sport senza dover ricominciare da capo. È vero ci vorrebbe un cambiamento culturale.
Cara Asia, mi sembra che tu abbia capito ( così giovane) che un dolore può essere superato solo se attraversato. Sei stata e sei molto coraggiosa. La perfezione è un’ idea e per questo irraggiungibile, tu hai raggiunto una conquista più importante, la capacità di soffrire, capacità che i giovani hanno molta difficoltà a sviluppare.Se scriverai un libro sarò la prima a leggerti!
Non so come tu abbia trovato la forza di essere così lucida. Sono passati anni ma ancora mi faccio mille domande! Grazie. Mi sono commossa e mi sono rivista.
Grazie mille Asia per aver condiviso i tuoi pensieri con noi, sento molto nel profondo le tue parole ❤️
La ritmica diventa parte di noi ci fa crescere e ci fa diventare uniche nel nostro genere, il genere della ginnasta che appunto ci accomuna. Noi saremo sempre alla ricerca di questa grande perfezione che sappiam bene non esistere senza tanto impegno e fatica con molteplici sacrifici.